TRADUZIONE. Dal prototesto al metatesto

WILLIAM HOGARTH(*), Il risveglio

Essere “d’alto lignaggio”, di per sé, non è certamente un peccato; semmai obbliga maggiormente al rigore e alla rettitudine, per cui quello che è infame, diventa, se fosse possibile, più infame ancora, e quello che è ordinariamente un bel gesto eventuale ed eccezionale, può diventare norma imprescindibile. Può addirittura accadere che certe infami atrocità, come la promulgazione delle leggi razziali, siano possibili solo ai discendenti da altissimi lignaggi, e che l’imperdonabile codardia preferisca la fuga a Brindisi e oltre i confini, abbandonando la nave, dopo aver lasciato o addirittura consentito che venisse incendiata e che il popolo andasse pure incontro al suo triste destino: occupazione, guerra civile, distruzione, stragi.

Ora, che un tal “Eufemio” sia nato marchese (soltanto marchese, non principe ereditario) e in casa sua ci siano uno o più baldacchini che proiettano ombre feudali: nulla da ridire; e anche per quella sua grossolana conoscenza dell’ortografia, – conseguenza, assai probabilmente, d’una altrettanto approssimativa ortoepia –, vorremmo poter invocare almeno una circostanza attenuante: senza, certamente, pretendere un’assoluzione: perché a far passare i difetti per pregiate virtù ci vogliono i principi del foro, mentre noi, come un modestissimo (e mal pagato) avvocato d’ufficio, ci rimettiamo alla clemenza della Corte.

Si vuol dire che nella parlata fiorentina, ad esempio, (ben inteso: esiste quella aretina, livornese, pisana, senese,… quella toscana non esiste!) altra cosa è la consonante “g” dolce di “giudizio” e altra è la pronuncia di “cugino”, in cui la “g” scivola verso la “j” francese di “jambon”, sempre per dire. Segue che a un fiorentino (come anche a molti altri) non verrà mai in mente di associare “paggio” o “maggio” alla parola “cugino”; ma se immaginiamo un marchesino nativo di qualche località meridionale, ci si può perfino azzardare a scusarlo. Quanto a “exercitus lardi”, no: ci si trova proprio davanti ad una causa persa.

Detto che la satira del Belli(1) sta nel fatto che, per via della nobile ascendenza, vien premiata l’ignoranza asinina del nostro Eufemio, resta che l’inescusabile ottusità del signoril rampollo, quella per cui non ci sono neppure fantasiose attenuanti, si manifesta particolarmente nella balorda traduzione latina, perché non è stato capito quello che si doveva tradurre. È pur vero che nel parlare corrente spesso si appiccicano tra di loro le parole, per cui si può non avvertire uditivamente la differenza fra “distrutto” e “di strutto”; ma un’intelligenza anche un po’ meno che normale coglie subito che non ci può essere nessun nesso tra un esercito e la polenta di granturco fritta nel lardo, ossia strutto di maiale (di quella frittura a Firenze si dice, o, meglio, si diceva: i canarini, con tanto di sale grosso e rinvoltati nella carta gialla).

Lasciando ora al suo destino l’Eufemio immortalato fin dal 22 luglio 1843 ed il suo non meno celebre saggio del 30 settembre di quale anno sia stato(2), e del quale comunque ricorre fra giorni il fausto anniversario, vogliamo soffermarci sul problema o, meglio, sui problemi cui va incontro una traduzione, guardandoli sotto più di un aspetto, rinunciando ovviamente ad una ipotetica elencazione completa.

Intanto non necessariamente si dà corrispondenza biunivoca neppure tra nomi comuni di cosa: rimanendo nell’idioma di “jambon”, il francese “verre” sta per “vetro”, ma anche per “bicchiere”; un vocabolario riporterà le diverse accezioni, se però ci troviamo con un testo da tradurre occorrerà per forza scegliere e, dunque, bisognerà almeno aver capito il testo ed il contesto.

(continua)

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Note
(*) William Hogarth, (Londra: 10 novembre 1697 – 26 ottobre 1764) pittore, incisore e autore di stampe satiriche inglese.
(1) Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli (Roma: 7 settembre 1791 – 21 dicembre 1863), è stato un poeta italiano. Autore di diverse opere in lingua; nei suoi 2279 Sonetti (31.906 versi: più del doppio dei versi della Divina Commedia), composti in vernacolo romanesco, raccolse la voce del popolo della travagliata Roma papalina della prima metà e oltre del XIX secolo.
(2) Il saggio del marchesino Eufemio
A dì trenta settembre il marchesino,
d’alto ingegno perché d’alto lignaggio,
diè nel castello avito il suo gran saggio:
di toscan, di francese e di latino.
Ritto all’ombra feudal d’un baldacchino
con voce ferma e signoril coraggio,
senza libri provò che paggio e maggio
scrìvonsi con due g come cuggino.
Quindi, passando al gallico idioma,
fè noto che jambon vuol dir prosciutto,
e Rome è una città simile a Roma.
E finalmente il marchesino Eufemio,
latinizzando esercito distrutto,
disse exercitus lardi, ed ebbe il premio!
Giuseppe Gioachino Belli
22 luglio 1845

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