Il genere dei nomi e dei pronomi, dei participi….

            Un altro problema si presenta quando non c’è corrispondenza di genere: “pace”, “pax” in latino, εἰρήνη(1) in greco, son tutti femminili, mentre il corrispondente ebraico “šālôm” è maschile. Un caso classico in cui tutto dipende dalla interpretazione è il celebre passo di Michea, che riportiamo secondo la versione CEI del 1974 e del 2008, ponendo tra parentesi quadra le particolarità della prima versione e tra parentesi tonda quelle dell’ultima versione:

                        Mi 5 1E tu, Betlemme di Efrata,
                        così piccola per essere fra i [capoluoghi] (villaggi) di Giuda,
                        da te [mi] uscirà (per me)
                        colui che deve essere il dominatore {môšḗl} in Israele;
                        le sue origini sono dall’antichità,
                        dai giorni più remoti.
                        2Perciò Dio li metterà in potere altrui
                        fino a quando (partorirà) colei che deve partorire [partorirà];
                        e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele.
                        3Egli [starà là] (si leverà) e pascerà con la forza del Signore,
                        con la maestà del nome del Signore, suo Dio.
                        Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande
                        fino agli estremi confini della terra.
                        4a[e tale] (Egli stesso) [sarà la pace:] (!)

            La sostanziale differenza è nella interpretazione e conseguente traduzione di Mi 5,4a. Il testo ebraico suona:

                        wehāyā́(h) zè(h) šālôm,

ed è da capire se il dimostrativo maschile “zè(h)” si riferisce a “šālôm” o a “môšḗl”, che è un participio presente attivo maschile singolare, – reso dai LXX con il corrispondente participio ἄρχων(2) –, in italiano traducibile letteralmente con “dominante” da prendersi in forma sostantivata e, dunque, “dominatore”, – come, d’altra parte, “dominator” si legge sia nella Vulgata clementina, sia nella recente Neovulgata –.

            Nel primo caso si parlerebbe di una situazione di pace, creatasi in seguito alla venuta e all’opera del “dominatore”; nell’altro la pace si identifica con la persona stessa del dominatore. Siccome “agere sequitur esse”, la situazione di pace viene comunque necessariamente a realizzarsi, ma in quest’ultimo caso la pace non è più tanto dovuta ad un’azione, quanto ad una presenza, ossia il Messia porta la pace perché Lui è la Pace, come Dio dà la vita perché Lui è il Vivente: questa seconda interpretazione è più forte della prima. Sembra che San Paolo abbia letto proprio in questo senso il passo profetico in questione, quando agli Efesini scrive:

            Ef 2 14aαὐτὸς γάρ ἐστιν ἡ εἰρήνη ἡμῶν,…(3)
                        Egli infatti è la nostra pace,…

            A sua volta, in ambito cristiano questa espressione paolina può costituire il criterio per la scelta della traduzione reputata come più convincente, a proposito di questo primo elemento di versetto veterotestamentario, di cui appunto ci stiamo occupando, cioè Mi 5,4a.

            I LXX, per parte loro, intesero la pace come situazione: αὕτη = quella; la vecchia e nuova versione latina videro concordemente la pace come persona: “iste”; dell’oscillazione della CEI s’è già detto; quanto alla traduzione Interconfessionale, dove si legge: “e porterà la pace”, sembrerebbe doversi concludere che è abbastanza neutra e aggira il problema, eliminando quel fatidico dimostrativo “zè(h)” e così scansando di prendere posizione: “quegli” (il dominatore), o “quella” (la pace in facto esse)?

            Un caso analogo si presenta nel prologo di san Giovanni:

            Gv 1 9ἦν τὸ φῶς τὸ ἀληθινὸν ὃ φωτίζει πάντα ἄνθρωπον ἐρχόμενον εἰς τὸν κόσμον(4).

            Il participio deponente ἐρχόμενον può essere accusativo maschile e allora τὸ φῶς, ossia “la luce”, “illumina ogni uomo che viene al mondo”; se invece è nominativo neutro, allora è “la luce” “che viene nel mondo”, oppure “la luce”, “che viene nel mondo”, “era quella vera”.

            Per evidenti motivi la vulgata non può non decidere quale interpretazione dare e, conseguentemente, quale traduzione offrire. La Clementina (C) optò per l’accusativo maschile e attribuì valore dimostrativo all’articolo τόν; la Neovulgata (N) sta per il nominativo accordato con “lux”.

            (C) Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem, venientem in hunc mundum.
            (N) Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem, veniens in mundum.

Più di così, non si poteva fare. Le due versioni CEI hanno tradotto invariantemente:

                        Veniva nel mondo la luce vera,
                        quella che illumina ogni uomo.

Si vede facilmente che l’imperfetto “veniva” interpreta come da associarsi, rispettivamente, le parole ἦν e ἐρχόμενον, “erat” e “veniens”. La Bibbia interconfessionale traduce:

                        La luce vera,
                        colui che illumina ogni uomo,
                        stava per venire nel mondo.

Sotto l’aspetto dell’accordo verbale quest’ultima non si discosta sostanzialmente da quelle della CEI: “stava per venire” al posto di “veniva” non cambia poi molto il senso; sposta semmai un po’ all’indietro l’evento della venuta, colto come imminente e non ancora in progressiva attualizzazione. La novità sta in quel “colui”, perché qui non si tratta più di traduzione, ma di vera e propria interpretazione: per altro, più che accettabile, in quanto dà rapida esplicitazione al senso teologico implicitamente contenuto in questo versetto. E veniamo al dunque.

            La prima opera della creazione è la luce: realtà di una natura assolutamente misteriosa, perché non è certamente quella visibile (la fonte di luce maggiore e quella minore saranno create il quarto giorno) e quando è fatta non si è concluso il primo giorno, ma si è trattato di un giorno unico (yôm ’eḥā́dh), speciale, oltre ogni computo. Il duplice mistero, della sostanza e della collocazione temporale di quell’evento, indussero a pensare che quella luce doveva essere la prefigurazione della promulgazione della Legge, la cui validità avrebbe attraversato i tempi. A questa luce, certamente vera in virtù della propria origine, Giovanni fa subentrare l’avvento di quella intrinsecamente vera(5), che viene perché c’è sempre stata, era “in principio”, prima del tempo: cioè il Verbo, “pieno di grazia e di verità”, che è poi il “colui” dell’Interconfessionale.

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Note

(1) Traslitterato “eirḗnē” e pronunciato “iríni”.
(2) Traslitterato e pronunciato “árchōn”.
(3) Traslitterato: aytòs gár estin hē eirḗnē hēmôn; pronunciato: aftòs estin hi iríni himôn.
(4) Traslitterato: ên tò phôs tò alēthinòn hò phōtízei pánta tòn ánthrōpon erchómenon eis tòn kósmon; pronunciato: în tò phôs tò alīthinòn hò phōtízi pándha tòn ánthrōpon erchómenon īs tòn kósmon.
(5)         “In lui era la vita
            e la vita era la luce degli uomini”. (Gv 1,4)
«Io sono la via, la verità e la vita…». (Gv 14,6)
«Io sono la luce del mondo…». (Gv 8,12;9,5)

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