Madonna Tessa, antico basso rilievo
“Caritas Christi urget nos” (2Cor 5,14)
In seguito, nel 1790, il De Illustratione del Verino, di cui dicevamo qualcosa nel precedente articolo, conobbe una terza edizione, “arricchita di perpetue annotazioni filosofiche ed analoghe al soggetto”, e “con la versione toscana” libera, in endecasillabi sciolti. A proposito di Folco e della sua fondazione ecco il testo poetico, ovviamente preferibile, fosse pure soltanto per la storicità, ad altre opinabili e anche più letterali traduzioni:
Ma quei che dalla Porta il lor Cognome
Trasser, l’antica origine dal Monte
Di Fiesole; e per sangue, e per ricchezze
Ragguardevoli molto fur stimati:
Un Folco discendente, e molto noto
Di questa Stirpe, a tutto suo dispendio
Dai fondamenti eresse il Sacro Tempio
Al Nome di Maria del ciel Regina;
Di propria largità fè ricco il Luogo
Di fruttifere Terre, e Latifondi,
Perché gli Infermi, e tutti i Miserabili
Fosser curati, e posti in salvamento
Gratuitamente; e per amor di Cristo:
A tutte l’ore aperto sta l’ingresso
Per accogliervi gli Ospiti a buon grado,
O Cittadino, o Forestier che venga,
Per provare a suo prò con quale e quanta
Carità si soccorra a ciascheduno.
Non avvi in tutt’il Mondo un Santuario,
Che sia più venerabile di questo:
Ma meglio fia il tacer, che dirne poco.
Questo per molto basti che si scriva,
Che qual Ancora immobile tien ferma
Fiorenza vacillante per sue colpe;
Questo del Re del Ciel placa lo sdegno.
Si potrà osservare, di passaggio, che, con gli ultimi due versi, per Firenze non si tratta di tutta e sola lode: forse perché, come pare, il Verino, nel 1490, diventò un piagnone in seguito all’ascolto d’una sola predica del Savonarola, il quale sulla città e sui Medici ebbe parecchio da ridire. Che su Firenze, come un po’ su tutto e su tutti, poco o molto, ci sia sempre stato di che ridire e, dunque, anche ai tempi del meritamente celebrato Folco, c’è da supporlo: basterà ricordarsi di Dante, che era allora, a costruzione dello Spedale appena iniziata, poco più che ventenne. Fattosi uomo, il Poeta sentirà il rimpianto di un passato non proprio prossimo, rievocato come la carezza di un sogno gentile:
“Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.” (Paradiso, XV, 97-99),
al quale si contrappone una realtà amara, che ferisce e indigna fino a far esplodere un’ironia feroce:
“Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!” (Inferno, XXVI, 1-3).
Della «Serva per nome Tessa, donna caritativa, e molto timorata di Dio», detto che ha dell’incredibile che da lei sia partito l’impulso per la realizzazione dell’“opus sumptuosum”, il manoscritto non dice più nulla. Senza neppur tentare di colmare quella che ci sembra un’evidente lacuna, ci limitiamo qui a ricordare che Monna Tessa (diminutivo di “Madonna Contessa”, un nome femminile assai diffuso nel Medioevo e ispirato alla figura della contessa Matilde di Canossa) era la vedova di Tura, un artigiano che realizzava i “basti”, cioè le grosse e rozze selle per cavalcare asini e muli o per assicurarvi i carichi.
Entrata a servizio della famiglia Portinari al tempo di Folco, fu l’educatrice delle figlie di lui e in particolare di Beatrice, la donna angelicata amata da Dante e sua guida nel Paradiso. Fu la prima donna infermiera e la fondatrice dell’Ordine delle Oblate, dedite all’assistenza dei ricoverati secondo principi ispirati alla spiritualità di San Francesco d’Assisi e contenuti nella regola che Tessa, nel 1301, volle fosse scritta. Tra le prime oblate ci furono nobili e ricche donne fiorentine, come Margherita dei Caposacchi, che era parente del Portinari, Madonna Tancia, Giovanna De’ Cresci e Antonia De’ Bisdomini.
Morì a Firenze il 3 luglio 1327. (3. Continua)