UN PO’ DI STORIA DELL’ARCISPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA DI FIRENZE

Maurizio Bufalini

“L’intenzione dello Spirito Santo essere di insegnarci come si vadia al Cielo, e non come vadia il cielo”. (Galileo Galilei, lettera Alla Granduchessa madre Cristina di Lorena)

            Diversi e profondi cambiamenti hanno progressivamente caratterizzato specialmente gli ultimi decenni, in tutti i campi e certamente in modo significativo in quello della medicina e di tutte le numerose branche ad essa collegate. È andata man mano maturando la coscienza del nativo e universale diritto alla salute, anche se la pratica attuazione soffre a tutt’oggi di ritardi organizzativi e di discriminatorie parzialità economiche e geopolitiche. In ogni modo una realtà come quella di S. Maria Nuova non sarebbe più concepibile come frutto di liberalità gratuita e religiosa; l’attuale visione laica delle istituzioni democratiche e la dimensione sociale dei servizi essenziali, tipiche dello Stato moderno, non relegano però al semplice rango di pia supplenza quanto realizzato in epoche precedenti: piuttosto l’impostazione attuale ne deriva come maturazione conseguente di quelle premesse, anche quando non siano esplicitamente percepite o vengano addirittura ideologicamente negate. Come si suol dire, occorre tenere conto delle radici, che non possono mai essere trascurate, perché l’antefatto, secondo i casi, dovrà essere intensificato e magari parzialmente corretto: un po’ come un tronco vivo – per seguitare a usare l’immagine collegata alle “radici”, e pazienza, se parrà barocca – che si dovrà debitamente potare o capitozzare per impedire che copra la vista, ma sempre per il suo ulteriore sviluppo.

            Nel lungo periodo che va dal termine della Relazione del Bernardi ai giorni nostri bisogna certamente ricordare la notevole personalità di Maurizio Bufalini (Cesena, 4 giugno 1787 – Firenze, 31 marzo 1875), senatore del Regno d’Italia. Nel 1835, dopo diversi e, a volte, poco soddisfacenti incarichi, accettò la cattedra di Clinica medica alla scuola di Santa Maria Nuova; lì esplicò la sua innovativa pedagogia medica, insegnando dalla cattedra e più ancora dai capezzali: la scuola di Firenze divenne il luogo di perfezionamento post-universitario, una sorta di specializzazione degli studi di Medicina.

            Si potrebbe riassumere la sua visione galileiana dell’anamnestica e della diagnostica clinica nella completa liberazione da ogni forma di filosofemi, anche da quello positivista e ateo, che solo superficialmente possono essere accostati al processo conoscitivo induttivo. Il suo approccio alla scienza si rivelò guidato da una profonda religiosità e da assoluto rigore etico, ciò che comporta una analisi sistematica dei sintomi e la conseguente ricerca terapeutica concretamente nell’ammalato, inteso come persona, come elemento di un’omogenea tipologia patologica e sia come membro inserito nel più vasto ambito di una comunità.

            Osteggiato per preconcetto o per invidia, arbitrariamente annoverato di volta in volta fra i propugnatori di teorie opposte a quelle sostenute dai denigratori di turno, resta vera la convinzione e sicuro il metodo del Bufalini, accanto alla meritata fama conseguita. È lecito pensare che il luogo, la storia, l’impegno e l’apertura mentale nell’ambito dell’Arcispedale fiorentino abbiano appianato la strada al percorso ideato dall’illustre cesenate, anche se non avranno potuto del tutto compensarlo dei contrasti subiti.

            Per seguitare a condividere col Bernardi l’attribuzione «alla Città di Fiorenza (di) un altro più stimabile epiteto, che non meno del primo se le conviene (cioè quello di Bella), ed è quello di Pia», ferma restando la diversa accezione assunta dal concetto di “pietas”, ci sarebbe da dire che Firenze ha conosciuto in tempi molto più recenti la fondazione (1884) di un ospedale pediatrico, il “Meyer”, che, per i non più giovani, è ancora oggi “l’ospedalino” per antonomasia e che più precisamente è intitolato ad “Anna Meyer”: è una storia particolare, legata alla memoria di questa pediatra immaturamente scomparsa, che l’affetto e la generosità del marito, Giovanni, Marchese di Montagliari, hanno trasformato in una istituzione di singolare importanza e che insegnò da subito tante cose. Prima di tutto evidenziò che il bambino non è un adulto in miniatura, per cui, farmacologicamente, per curarlo, basterebbe ridurre proporzionalmente le dosi; ancora: il minore non è decisionalmente autonomo e non potrà stabilire da sé, ad esempio, se affrontare o meno interventi intrinsecamente o occasionalmente rischiosi, dei quali, comunque, dovrà trovarsi il modo di dargliene adeguata comunicazione, per evitare che si senta vittima di una sorta di sopruso; nei limiti del possibile e in ragione dell’età, non dovrà essere privato di un supporto ludico come anche di una adeguata formazione scolastica, per non essere preliminarmente escluso dai cicli regolari di insegnamento; in ultimo, solo per terminarla qui e non andare in troppi altri particolari, ma non ultimo per importanza, tener conto che specialmente i più piccoli esigono l’assidua presenza dei genitori, ciò che implica una organizzazione che consenta loro il “passo” continuato e prolungato. In anche meno parole, i bambini hanno indotto a considerare la persona in tutta la sua complessità fisica e spirituale, individuale e relazionale, familiare e sociale: compresa la malattia, che non è mai limitata solo al corpo. 4. Continua

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